Letteratura contemporanea: intervista a Giuseppe Lupo

Il Dottore Giuseppe Lupo, docente di letteratura italiana contemporanea presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore sede di Milano e Brescia, ha risposto ad alcune mie domande in merito al ruolo della letteratura e dell’editoria nella nostra società. Dopo aver conseguito una laurea in Lettere Moderne alla Cattolica di Milano con una tesi sul poeta-ingegnere Leonardo Sinisgalli, si è aperto al mondo editoriale italiano pubblicando diversi libri; tra i più celebri ricordo Viaggiatori di Nuvole nel 2013 e L’ultima sposa di Palmira nel 2011 per i quali ha vinto rispettivamente Premio Giuseppe Dessì e Premio selezione Campiello e Premio Vittorini.

Ho avuto modo di confrontarmi con lui sui diversi temi che affliggono la nostra società culturale da lui definita in crisi.

Cosa pensa della letteratura contemporanea? Chi si può definire scrittore e chi solo “intrattenitore”?

«Sono di parte, ovviamente e contribuisco alla crescita della letteratura italiana contemporanea scrivendo libri e saggi, quindi il mio giudizio non sarà obiettivo. Posso affermare però che la letteratura oggi sta attraversando un periodo di crisi, non solo a causa della crisi finanziaria; si tratta di una crisi di mercato che connette lettori e librerie. È una crisi epocale, di strategie, perché si va alla ricerca di nuovi linguaggi che non riescono a colmare il vuoto lasciato dalla letteratura del Novecento, in quanto tutto è già stato sperimentato. Chi scriverà un capolavoro oggi non potrà mai saperlo. Per quanto concerne la dicotomia tra scrittore e intrattenitore, credo che tutti siano in grado di scrivere delle storie, ma solo poche sono universali, toccano i sensi di tutti e si trasformano in romanzi. Gli intrattenitori scrivono per un momento, non lasciano un’impronta».

Come ci si può affermare nel mondo dell’editoria, oggi? Il rapporto scrittore-editore-lettore è cambiato molto dalla metà del ‘900 ad oggi?

«Sì, è cambiato molto. Le case editrici hanno subito un cambiamento epocale, perché da lavori artigianali si sono trasformati in imprese industriali. Oggi i libri vengono prodotti in serie e ciò che viene venduto sul mercato è il prodotto industriale, frutto di sacrifici dell’editore e dello scrittore. Nonostante questo, io lo continuo a vedere come un lavoro artigianale. Purtroppo il dominio del mercato ha aumentato esponenzialmente il fatturato, la domanda, l’offerta a discapito del libro stesso. Non c’è compatibilità tra quantità e qualità di un libro: vige un equivoco di fondo secondo il quale se un libro vende tanto allora è buono. Nella maggior parte dei casi non è così, perché si tende a pubblicare in base alla richiesta del pubblico e non per la qualità e il significato di un libro. La letteratura viene quasi commercializzata».

La critica è trascurata dai lettori?

«Certo, assolutamente. Il problema è che in terza pagina, quella dedicata alla critica, le opinioni relative all’autore, alla trama, alla qualità del libro non vengono nemmeno prese in considerazione. Manca oggi il filtro della critica mediatica, molto presente trent’anni fa. Arieggia un atteggiamento diffidente nei confronti degli studi di critici e saggisti, perché si ha la presunzione di essere in grado di giudicare un libro attraverso solamente la propria opinione.  Invece, non tutti possono essere critici, perché è necessario acquisire dei mezzi e delle conoscenze tali da poter spaziare all’interno del campo letterario senza cadere nel banale e nel luogo comune».

Le pongo un’ultima domanda su un articolo edito dalla rivista ‘Vita e Pensiero’ nel 2014: “Sud e letteratura: una storia senza redenzione? Cosa pensa sia cambiato da Verga all’Ortese, a Saviano?  A cosa può aver dato origine una letteratura “meridionale”?

«L’articolo uscito su “Vita e Pensiero” parlava proprio di questo: facevo una distinzione insolita tra due ipotesi sull’origine della letteratura meridionale. Da un lato la linea angioina, cioè l’insieme di racconti fantastici, narrazioni comiche che nascono con Boccaccio. Dall’altro la linea aragonese, secondo la quale il narrare non è più di fantasia, bensì di denuncia; il maggior esponente ed iniziatore è Giovanni Verga. Tra le due strade ha prevalso quella di Verga che ha lasciato dietro di se un cammino molto lungo percorso e completato da Carlo Levi, Roberto Saviano, raccontano per denunciare».


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