Porte Aperte: un palcoscenico d’arte nascosto

L’Atelier del teatro e delle Arti in mostra presso l’Atelier Repubblica dal 14 al 18 aprile

Un palcoscenico dimenticato da cui gli attori sono fuggiti nel mezzo della scena. Un laboratorio confuso, caos ordinato di pannelli oggetti sculture. Il silenzio avvolge in un’ala di mistero le tele stese nel vuoto, lasciate lì, abbandonate da un regista frettoloso. Come manichini di De Chirico, volti di cuoio galleggiano nell’aria, plastici, immobili. Sono maschere dagli sguardi congelati in un ghigno di compiacimento, dalle fronti vissute e dagli occhi spenti, ma non ancora stanche del compito che è stato loro assegnato: dar vita a quelle vesti vuote senza corpo, abiti alla ricerca di un’anima per non accasciarsi.

Totalmente diverse dalle maschere prodotte dalle stampanti 3D esposte all’ingresso dell’installazione all’Atelier di Repubblica in occasione dell’evento PORTE APERTE (dal 14 al 18 Aprile). Enigmatiche, mi seguono con la coda nell’occhio, quasi fossi un’intrusa in quel vecchio teatro abbandonato, quasi turbassi un silenzio di polvere immoto da anni. Gelose forse del loro artefice, Juan Rafael Caiza, pittore ecuadoregno e milanese, che mi spiega ogni dettaglio della meticolosa creazione.

Il cuoio è lavorato dopo esser stato immerso in acqua tiepida o calda, per ammorbidirlo; prima di dare il colore, si scartavetra. Per scolpire e formare utilizzo attrezzi in legno e osso; è una pratica di ferramenta tipica della scuola classica: gli stessi strumenti sono realizzati da me, con corni di cervo e altri animali. In tale scelta si riflette anche la mia passione per la simbologia latino americana, la spiritualità degli animali.

Lo osservo lavorare, piegare il cuoio; sul tavolo attrezzi che sono opere d’arte, materiali che sembrano appartenere a un’altra epoca. Sullo sfondo invece, immobili le serigrafie di Danis Montero Ascanio, nelle quali corrono e si arrampicano sagome di piccoli uomini.

Personaggi lillipuziani che scalano le opere della serie Climb in the future, ma che lasciano la propria impronta in tutte le creazioni dell’artista cubano. Ripetuti, si affannano verso la meta, ora su una scala, ora proiettati in scenografie urbane. È l’autore stesso, con il suo ottimismo, che in Proiezione all’immaginario è mosso nella sua scalata dallo spirito di arrivare; l’Io piccolo, il pretesto di questa ambizione di raggiungere la meta. Così il pittore rappresenta la propria ombra che cammina impercettibile in bilico sullo sfondo di una Milano grigia di carboncino, assumendo ora le fattezze di un uomo che legge il giornale, ora di un signore a passeggio con il cane.

“È qui manifesta la polemica sociale”, spiega in un’intervista Ascanio, diplomatosi presso l’Accademia di Belle Arti José Joaquín Tejada di Santiago de Cuba nel 2007 e trasferitosi a Milano nel 2013, “evidente nelle scritte ai lati della tela. Ho posto a diverse persone la stessa domanda: “E tu, di che cosa hai fame?”. Ciò è da un lato un modo di collegarsi al più ampio tema dell’Expo, dall’altro è una domanda che considera principalmente il cibo dell’anima. A ciò sono volte le risposte raccolte nel dipinto: si ha fame di Lavoro, Libertà, Creazione”.

La tematica del cibo è riscontrabile anche in un altro dipinto, la cui composizione ricorda L’ultima Cena di Leonardo…

Esattamente, se non che i personaggi sono ancora una volte le sagome nere che mi ricalcano, e che rappresentano qui ognuno una nazionalità diversa.

L’idea è quella di una città multiculturale? C’è qualche riferimento al Suo passato o alla tematica dell’immigrazione?

Sì, è l’idea della Milano internazionale, che si evince dalla Stazione centrale e dal Duomo che ne fanno da scenografia. La nazionalità dei migranti che siedono alla stessa tavola si intuisce dalle scritte che colorano la tela; in basso i piccoli uomini si arrampicano sulla tovaglia e fissano la scena.

Polemica, libertà, aspirazione, teatro. Così tutto si mescola e tutto si forma in un’unica idea, nella mistica atmosfera di un’unica installazione.


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