Scriviamo troppa, troppa, troppa poesia

di Victor Attilio Campagna

Viviamo in un secolo, il XXI, ricco di mutamenti che stanno dislocando ragionamenti di un certo tipo verso una strutturazione radicalmente diversa. In sintesi, stiamo diventando sempre più animali digitali. Che si stia assistendo a questo mutamento antropologico può non essere percepito, perché nelle rivoluzioni in fieri è sempre così, siccome la percezione diventa più allargata e, quindi, meno precisa. In tutto questo ci sono pregi e difetti. Tra questi ultimi, il più rimarcato è la forte presenza di un’atmosfera solipsistica, in cui la relazione viene mediata da schermi, telefoni e così via. Questa mediazione è da molti criticata, perché è una solitudine insana, in quanto non propriamente momento di solitudine, bensì eterna presenza dell’altro nella vita di tutti i giorni, con sviluppi di ansie e paure nuove, quali, ad esempio, il fattore della non risposta immediata dopo aver visualizzato il messaggio. Ecco, qui siamo nel grottesco.

Venendo al dunque, in tutto questo la poesia che sta facendo?

Ovviamente nel mondo contemporaneo i mezzi si sono moltiplicati a dismisura: basti pensare alla coltre di blog in cui ci si può perdere tranquillamente digitando qualche parola chiave su Google. Molti di questi sono siti di aspiranti poeti. Questo fenomeno ha dei lati positivi, perché costruisce un canale comunicativo molto semplice, in cui è a portata di mano il lavoro di un possibile talento, ma, d’altra parte, la problematica maggiore è l’autoreferenzialità. Infatti questi blog non sono esattamente controllati, ovvero sono manifestazione di un singolo che decide e sceglie di pubblicare, il tutto a sua completa discrezione, senza un vero e proprio confronto o giudizio preliminare.

L’unico riscontro è etereo, labile, poco informativo: si va dalle visualizzazioni, fino ai commenti. Per cui l’effetto che ne esce fuori è la fioritura di un numero pressoché infinito di poesie, senza un vero riscontro, o meglio, a cui è veramente difficile dare una vera risposta, sia perché molto spesso viene rigettata, sia perché è difficile dire ad una persona che magari quella non è la sua strada.

L’altro grosso problema è il social network, la vera apoteosi del cattivo gusto. Su queste piattaforme vi sono poeti che pubblicano i loro versi come status, ricevendo i complimenti da amici vari e alimentandosi di questa presupposta gloria. Vi sono certe eccezioni, ma in genere dare in pasto a Facebook i propri versi non è per niente indicativo della propria bravura, perché sovente i commentatori sono a favore preliminarmente degli autori.

L’ultima categoria, meno diffusa, ma più interessante, è quella degli auto-pubblicatori: siti come Il Mio Libro, in cui chiunque può pubblicarsi un libro, impaginandolo come vuole, il tutto a proprie spese. È una sorta di alternative economica alle case editrici a pagamento.

Il punto in comune

In questi tre macro-gruppi c’è un punto in comune: l’autoreferenzialità. Il che è un curioso paradosso. Vivendo in un mondo globalizzato, teoricamente, il risultato dovrebbe essere un’apertura totale all’altro, una sorta di internazionalizzazione prêt-à-porter. Invece il risultato che viviamo è una forma avanzata di autoreferenzialità indotta. In realtà non è poi così stupefacente che si sia giunti a questo, perché a ben pensarci è un risultato più che ovvio. Infatti, di fronte a mediatori, ovvero parti inanimate che si contrappongono tra gli utenti, c’è un minor rischio percepito, per cui risulta più facile esporsi.

Basti pensare ai licenziamenti per frasi o mi piace infelici sui propri capi pubblicate sui maggiori social network. Purtroppo tutto questo colpisce anche in un ambito che in realtà non è per nulla globalizzabile, ovvero la poesia. Anche chi scrive non sente più la responsabilità dei propri versi. Maurizio Cucchi una volta ha detto che per capire se un poeta va a capo a caso o con senno, basta sentirlo leggere: se la sua lettura va a senso, non seguendo quindi gli a capo, vuol dire che ciò che scrive non è pensato davvero sotto tutti i punti di vista.

Questo è evidentemente anche dovuto al fatto che si è persa l’abitudine di leggere i propri testi ad alta voce tra gli amici, un’abitudine che permetteva allo scrittore di rendersi conto di ciò che scrive, di confrontarsi davvero con un pubblico e di ricevere anche delle critiche.

La critica

Ora capita spesso che si pubblichino poesie come funghi d’autunno, senza remore. E se le si critica? Lì inizia il litigio, che di solito ha lo stesso copione:

«Eh, ma io volevo dire questo, non capisci niente.»

«Sì, ok, ma che senso ha scriverlo così?»

«Eh, è il mio modo di scrivere.»

«Vabbe…»

Questa è una parafrasi. Vi posso assicurare che succede, spessissimo. Basta andare in un forum di poesia: c’è il peggio del peggio della permalosità e dell’autoreferenzialità. Parimenti su Facebook, dove tra l’altro ho avuto una discussione su un testo in versi, che ho trovato orribile, mal scritto e pretenzioso. L’ho scritto in un commento, in altri termini, e la risposta è stata: «Va bene, ma questo era un giochetto, non voleva essere un capolavoro.» Il che è legittimo, ma allora perché pretendere un giudizio esponendolo ad un grosso pubblico?

In definitiva, se oggi la poesia è un po’ in decadimento tra i giovani è perché da una parte si legge poca poesia e quando lo si fa la si legge male, perché siamo disabituati a leggere poesia (non è un caso che in Italia ci siano più scrittori che lettori); dall’altra non si sopportano le critiche, proprio per l’autoreferenzialità indotta dalla globalizzazione, rigettando così il confronto, che in realtà è necessario, perché solo dall’incontro nascono le occasioni per pubblicare i propri versi e, soprattutto, per avere una crescita personale.

Per cui mi rivolgo ai pochi aspiranti poeti che mi stanno leggendo: al posto di scrivere versi e pubblicarli su internet, andate alla Casa della Poesia, o spulciate su Google in cerca di eventi, luoghi in cui si leggono poesie, o ancora organizzate voi stessi degli eventi dove non solo leggere le vostre poesie, ma in cui parlare di poesia. Questo è l’unico modo anche per rendersi conto se si è o meno tagliati per essere poeti (il che non è così scontato).


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