Meritocrazia nella democrazia o democrazia nella meritocrazia?

di Nannerel Fiano

Il termine merito ha sempre avuto una rilevanza prioritaria. Ricorre spesso nelle vicende riguardanti la politica e la pubblica amministrazione. Facciamo un esempio, guardando subito ai fatti: Matteo Renzi ha spesso invocato il merito come carta vincente, come lo scopo e il mezzo della politica, come l’elemento distintivo di una nuova classe politica capace di ribaltare il sistema valoriale su cui si basava la classe dirigente precedente.

Sembra che il merito e la meritocrazia siano parte della struttura democratica che oggi, a fatica, caratterizza la nostra società.

Ma se il merito, ovvero la selezione dell’eccellenza sulla base di criteri trasparenti ed equanimi, non può che contribuire alla buona politica, ci si deve allora chiedere effettivamente se il merito possa essere definito oggettivamente, come nozione universale.

Partiamo dalla politica e dai suoi attori, i politici.

In una democrazia parlamentare come la nostra, dove la classe politica è scelta sulla base di indicazioni indirette, vista l’impossibilità di esprimere una preferenza in sede di voto da parte dei cittadini, il parlamento e il governo possono dirsi meritevoli? Se la risposta è negativa, siamo sicuri che il cittadino sia in grado di esprimere un voto, una preferenza, un atto di volontà che premi il merito? Se la risposta è affermativa, mi chiedo: sulla base di cosa?

Non parlo della sostanza, ma della forma: la cornice all’interno della quale giocano il nostro organo legislativo e quello esecutivo, viene definita dal merito?

Il voto consiste in un diritto/dovere esclusivo dell’individuo: chiunque deve poter avere accesso all’elettorato attivo così come all’elettorato passivo.

Spesso si sente dire che se il governo esegue male il proprio compito è perché il popolo non è in grado di meritarsi dei politici capaci e idonei al governo.

Ma allora il problema è alla fonte.

Dovrà pur esistere un elemento riconducibile al merito che trascenda le leggi elettorali, i referendum e le elezioni politiche.

Forse il merito è tale solo se riferibile ai pochi e non ai più? Insomma ai migliori?

Se, riportando il pensiero di Platone, il governo dei migliori, cioè l’oligarchia, è sinonimo di buon governo, allora forse il sistema democratico attuale (cioè la politica dei più, visto il suffragio universale e la democrazia parlamentare) non è in grado di regolarsi perché inevitabilmente la società civile, non riconoscendo il merito e la qualità, non è in grado di riconoscere nei propri rappresentanti il merito e la qualità.

Inevitabilmente si potrebbe cadere nell’esaltazione dell’èlite: esaltazione che in realtà ha trovato la sua espansione maggiore nel corso del governo Monti, dove erano i tecnici duri e puri a governarci e a cercare di risanare i conti e di riedificare il sistema politico.

Ha funzionato il governo Monti? A voi il giudizio, ma mi pare di ricordare – e lo scrivo vista la risonanza che ha avuto –  il boato di rabbia generalizzato che ha seguito le impopolari lacrime della Fornero.

Politicamente parlando, una classe politica meritevole può esistere nel momento in cui l’informazione riesca a condurre ad una parità generalizzata per quanto riguarda la capacità critica di ogni elettore.

Insomma, il merito si basa su che cosa? Sul quoziente intellettivo? Sull’impegno? sulla cultura? sul talento?

Ma non entrano forse in gioco variabili come la classe sociale, l’etnia e il genere?

Ha ragione Rawls, con la sua idea della ‘lotteria naturale’: è il caso fortuito che permette agli individui di far parte della nicchia, o comunque di far parte di coloro che possono, di coloro che governano, di coloro che fanno parlare di sé.

Il detto popolare per cui tutto è possibile, basta volerlo, è monco: tutto è possibile se abbiamo un punto di partenza ben definito.

Ma questo punto di partenza non dovrebbe essere dettato dal merito inteso come selezione quasi asettica e basata su una cultura, un talento, una fortuna, un caso astratto: conta il genere, conta la geografia, conta l’ambiente naturale.

E quindi come si fa? Bisogna garantire il livellamento delle condizioni di partenza, non invocando la meritocrazia, ma invocando un elemento ancor più preliminare che funge da presupposto: la parità.

Esempio: a  mio avviso, non le quote rosa, ma il 50 per cento di donne nei luoghi di potere decisionale.

Non va bene perché le donne verrebbero scelte solo in quanto donne? Voglio dire, non è il buon senso che porta a stabilire che uomini e donne possano essere esattamente nello stesso numero se si tratta di adottare decisioni che riguardano nello specifico, guarda un po’, uomini ma anche donne? E’ un caso il fatto che anche alle donne nel sacrosanto 1946 fu garantito il diritto di voto? Perché non garantire il diritto di rappresentare a entrambi i sessi in egual misura? Quale merito andrebbe a inficiare un sistema così architettato? Il merito dell’uomo verrebbe schiacciato dalla mera presenza immeritata della donna? Ammettiamo pure che la selezione possa avvenire sulla base di criteri sballati: il criterio sballato riguarda gli uomini così come le donne, a prescindere dal sesso. A parte il fatto che la parità di genere è un problema grave e molto sentito,  non può che suonare democratico il fatto di invocare la parità.

Per capirci, guardiamo all’Europa del nord.

Se vogliamo azzerare le discriminazioni di genere, partiamo pari.

Quindi, non quote rosa, che sembrano un regalo fatto dall’alto a povere signorine imprecanti potere, ma il bello e tondo 50%.

Altro esempio: a garantire una partenza equidistante dalla meta, potrebbe giocare a favore un finanziamento effettivo alle famiglie, sostegni e aiuti effettivi e una tassazione che sia veramente proporzionata ai patrimoni, finanziari o immobiliari.

Potrebbe essere di grande aiuto uno stato che non continuasse a finanziare le università e le scuole private, vista la differenza anche solo terminologica tra istruzione pubblica e privata. La logica parla: a prescindere dal servizio di natura pubblica che caratterizza tutte le scuole/università  (perché l’istruzione è un bene comune ), la scuola/università privata è tale perché, a rigor di logica, dovrebbero essere i privati, nella veste di persone giuridiche o persone fisiche, ad occuparsi dei finanziamenti alla base del funzionamento del servizio offerto, appunto, dalle scuole private.

Senza dilungarmi troppo, credo che il merito possa essere considerato un valore fondamentale e universale e atto a garantire una società equa e trasparente, solo nel momento in cui sussista il presupposto della parità.

Se non parto pari a te, come faccio a sapere se sei arrivato prima tu perché te lo meriti veramente?

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