Santuz

Una chiacchierata con Giancarlo Santuz

Milano, 17 febbraio 2015.

È una giornata piacevole, il sole abbonda e davanti al Teatro Nuovo risalta l’insegna della mostra che a breve sarebbe stata aperta al pubblico: “Un uomo, una storia”. Entro nel foyer del teatro, dove trovo Giancarlo Santuz con i suoi amici e collaboratori a godere in anticipo della mostra, forse per qualche ritocco finale.

Mi presento, ma già avevamo avuto modo di conoscerci indirettamente: Giuseppe Macor, fotografo ufficiale della mostra, era riuscito a strapparmi un’intervista con il maestro.

Modi semplici, sorriso sempre vivo, decisione, vivacità, lucidità caratterizzano sin da subito il discorso.

Mi fa notare immediatamente che le domande che gli avevo fatto pervenire in anticipo lo avevano costretto a riflettere. Non erano domande facili insomma.

Mi mostra le sue opere e mi spiega che in qualche modo avevo fatto centro con una domanda in particolare. Gli avevo chiesto se c’era un legame tra l’onirismo dei quadri e il suo concretissimo lavoro di architetto. Mi spiega che il senso era proprio quello. Si tratta di una persona che riuscirebbe a fotografare in pochissimo tempo un ambiente nei minimi dettagli se lo volesse.

Santuz
Andrea Bellandi e Giancarlo Santuz, ph. Giuseppe Macor

Proprio a causa del suo mestiere, che l’ha portato ad affinare una capacità tecnica notevole, frutto di sessant’anni di architettura, infatti il Sig. Santuz sottolinea che non è per compensazione che i suoi quadri sono astratti, ma per completezza. Insomma, non è un bisogno recondito di fuga ma un desiderio di conclusione, quasi di totalità che lo spinge.

Cerca una visione d’insieme, ed è spinto verso “l’emozione” cui porta il contesto. Quest’aspetto era evidente nell’architettura, osservando l’hotel “Principe di Savoia” e il “Palace”, ma non era scontato si trasponesse anche nella pittura.

Quindi sono le emozioni, le sensazioni che porta con sé un ambiente. In sostanza Santuz cerca di catturare l’atmosfera.

E questo me lo spiega molto bene quando gli dico che nella maggior parte dei paesaggi da lui dipinti c’è l’acqua. Mi racconta quindi che va in vacanza in Grecia e che quella è una grande fonte di ispirazione, ma che comunque in quei momenti, mentre dipinge, non dà valore al singolo soggetto ma all’insieme, perché è la visione d’insieme che conta, perché è quella che porta con sé l’atmosfera.

Allora si gira e mi indica un quadro che avevo già notato, mi aveva affascinato: era per la maggiore in bianco e nero, c’erano delle figure geometriche rettangolari. Mi dice che la casualità (fonte ispiratrice di quel quadro) a volte è una ricchezza che va assecondata. Poi continua parlando di altro.

Complimenti e consigli sono stati abbondanti in questa chiacchierata, sempre onesti, motivanti, uno sprono. Mi dice che il suo consiglio è di non aspettare che gli altri propongano un lavoro, ma di proporlo prima, di anticipare il committente. Le sue parole: “Fare, proporre, non aspettare”.

Dunque la memoria lo porta indietro con gli anni a quando lavorava sul Principe di Savoia e racconta di quel periodo in cui era a stretto contatto con l’Aga Kahn, il principe committente con cui poi stringerà un rapporto di confidenza.

Ricorda di un giorno in cui Frank Sinatra gli fece i complimenti e gli disse che quello era il primo Hotel dove era riuscito a dormire tutta la notte senza interruzioni. Al che il Sig. Santuz si ferma nel racconto, mi guarda con un sorriso compiaciuto e mi dice: “Eh, certo! Avevo curato ogni dettaglio, le stanze le avevo volute insonorizzate!”

Continua a raccontare del periodo del Principe di Savoia e mi dice che si poteva fare qualcosa di più, si poteva addirittura, in quegli anni creare una piazza sopraelevata su piazza della Repubblica. Ma a questo torneremo più tardi, perché proprio in quel momento arrivano i visitatori della mostra e non sono pochi. Il Sig. Santuz a questo punto deve fare gli onori di casa e io voglio osservare, voglio vedere chi sono, come sono fatti, e come interagiscono con l’artista i visitatori.

Giovani? Sì, parecchi, più o meno sulla quarantina. Altrettanti un po’ più in là con l’età. Allora suppongo che molti di questi siano amici. Ni, non tutti, molti sono ex-allievi. Santuz, effettivamente ha insegnato per trent’anni ma non pensavo che il rapporto con gli allievi potesse durare tanto e addirittura rafforzarsi.

Solo dopo qualche ora sono riuscito a intercettare nuovamente il Sig. Santuz, mi dispiaceva quasi rubarlo agli altri, perché tutti avevano veramente voglia di interagire con lui e lui non si risparmiava a nessuno, c’era per tutti. Comunque, a un certo punto mi guarda e mi dice: “Erano miei allievi, mi hanno amato molto, e io ho amato loro”.

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Giancarlo Santuz e Andrea Bellandi, ph. Giuseppe Macor

Gli chiedo allora dei suoi viaggi e mi racconta che è stato un po’ ovunque ma pone l’accento sul Medio Oriente e sull’Africa. Lì ha lavorato con il Dott. Gentili per la S.A.E. (Società Anonima Elettrificazioni) e riferisce che in quel periodo andava a vedere i suoi progetti in Africa per poi dormire con gli operai a causa della mancanza di altri capannoni.

Tornando a prima, mi aveva lasciato in sospeso con un’affermazione esplosiva: il progetto di una piazza sopra una piazza. In sostanza se ci fossero stati i fondi necessari, lui aveva proposto un progetto per Piazza della Repubblica. Voleva unire i due hotel di cui si era occupato: Principe di Savoia e Palace con una via sopraelevata in cui il traffico avrebbe lasciato spazio ai negozi e al verde.

Questo mi colpisce. Davvero tanto. Da quel momento la mia immaginazione vola.

Lui però continua anche se io ormai sono da un’altra parte con la testa e mi dice che i grattacieli, i palazzoni in vetro della Moscova, non sono nostri. Non si tratta di architettura nostrana e quindi sono quasi corpi estranei nella città. A lui piace la visione d’insieme. Quella di cui parlavamo quando mi descriveva i quadri, a lui piace l’atmosfera.

In effetti, pensandoci bene, Piazza della Repubblica con una piazza sopraelevata sarebbe stata elegantissima. Un trionfo. E nessun Grattacielo avrebbe mai potuto minimamente competere. Dovremmo imparare a rispettare la nostra identità culturale.

Io ormai pensavo di aver concluso, avevo tutto il necessario e anche di più per scrivere di questa persona e delle sue opere, ma lui voleva dire un’altra cosa. Mi dice di aver fatto la chiesa di Paullo e tre case di riposo, mi dice che quello è stato un lavoro importantissimo perché sociale. In particolare c’era una casa di riposo che gli piaceva perché aveva come contorno un giardino e lui mi dice che si immaginava i vecchietti passeggiare e sedersi in questo giardino. Li immaginava godere della natura. E mi dice che la natura è amore, che i vecchi avevano bisogno di amore ed era per quello che andavano fuse insieme natura ed architettura. Invece per la chiesa di Paullo aveva usato materiali locali, quello che c’era lì, quello che l’ambiente gli forniva.

Conclude dicendomi che per fare un opera bisogna tener conto dell’ambiente e dei costumi del luogo perché l’opera la si fa per gli altri. Allora un sorriso affettuoso, una stretta di mano e un arrivederci.

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